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Friday, May 04, 2012

MILANO, 29 marzo 2008 -


Prima di lasciare il raduno per rispondere alle nostre domande, un ragazzo si avvicina, gli stringe la mano: "Roberto, ho cominciato a praticare il buddismo dopo aver letto la tua autobiografia".
Roberto, mi descrive una sua giornata tipo quand’è a casa, in Italia?
"L’orto, soprattutto: ho la fortuna di avere dei suoceri che mi seguono in questa attività. Mi perdo per ore nei campi. Eppoi la famiglia: sono stato via tanti anni, adesso è il loro momento. Con Andreina ci siamo conosciuti a scuola, avevamo 15 anni. Abbiamo pianificato tutto già allora, compresi i due figli. Il terzo? Be’, ci siamo voluti fare un regalo...".
E quando è nel suo ritiro in Argentina?
"La caccia, naturalmente. Ma dipende dalle stagioni. Ci sono tante cose da fare: prendiamo la macchina e ce ne andiamo a zonzo per quella vastità, sulle montagne. Corro, anche: solo dritto, però. Con le ginocchia che mi ritrovo, non posso fare molti cambi di direzione. C’è un’aria incredibile, leggera: non saprei come descriverla. Ti dà una forza particolare".
A proposito di Argentina, com’è diventato tifoso accanito del Boca?
"Storia curiosa. Una domenica piovosa, in casa mia, vedevo una partita in tv insieme a un amico. Erano sul 4-0, si giocava alla Bombonera. A un certo punto inquadrano a lungo la curva dei tifosi: ballavano, cantavano, sbandieravano. Un’allegria contagiosa. "Bella forza fare così quando si vince", dico al mio amico. E lui: "Roberto, guarda che loro stanno perdendo..." Folgorazione: da allora è diventata la mia squadra. Quello stadio dà sensazioni incredibili. Una volta mi sono trattenuto alla fine della partita, seguendo la cerimonia di smontaggio di bandieroni e striscioni: tutto avviene ritmato al suono di tamburi; escono dallo stadio portando a spalla, in una fila lunghissima, 150 metri di striscione arrotolato. Da brividi".
Come si può salvare Maradona?
"Ho sentito varie volte dentro di me la vita di Diego. Qualche tempo fa l’ho incontrato per caso in aeroporto: gli ho chiesto una dedica per i miei figli, proprio sulla guida quotidiana del mio Maestro: bella coincidenza. Abbiamo parlato del più e del meno. Certo bisognerebbe raggiungere il suo cuore, ma è difficile: bisogna farsi largo fra quelli che non gli vogliono bene e gli offrono il peggio. Non deve buttarsi via. Un dolore".
Nel calcio d’oggi c’è meno poesia?
"E’ tutto più veloce, più difficile: negli anni ’90 più che negli ’80, oggi più che nei ’90. E’ un’evoluzione, bisogna seguirla. Certo non puoi mortificare un ragazzo rimproverandolo perché ha fatto un colpo di tacco. Siamo matti? In Sudamerica sono più vicini allo spirito autentico del nostro sport".
Lei ha un progetto per tornare nel mondo del calcio. Chiamiamolo sogno. Ce lo spiega?
"Mi piacerebbe occuparmi dei giovani. Guidarli. Preservarli da tanti pericoli che conosco. Essere schermo: una parola sbagliata è sufficiente a distruggere una carriera. E può bastare una parola giusta per lanciarne una. Nella mia vita voglio cercare e creare valori: in questo caso, ho bisogno della persona che ci creda".
Per i tifosi lei distribuiva magie. Quando entrava in area, si apriva una dimensione tutta sua: rallentava, rallentava. Poi una finta...
"Erano i miei grandi momenti. Diventavo freddo. Mi piaceva cercare il difficile. Che cosa rischiavo in fondo? Al massimo di perdere la palla, poco male in quella zona del campo. Ma se il difensore sbagliava o abboccava alla finta, era un tiro decisivo. Ho sempre vissuto il calcio così fin da bambino: per me il gol doveva essere accompagnato da qualcosa di importante. Da un numero, un’invenzione. Altrimenti non provavo gusto".
Chi l’entusiasma del calcio d’oggi?
"Messi, per esempio. Un po’ mi rivedo in lui. Quando ha la palla si ha sempre l’impressione che possa succedere qualcosa. Poi Ronaldinho, certo. Kakà, Cristiano Ronaldo, Ibra, Totti: tutti grandi, ma non mi piace fare classifiche, mi parrebbe di mancar loro di rispetto".
Gli indimenticabili che ha incontrato sul campo?
"Maradona. E Van Basten".
Le piace la nazionale di Donadoni? Ci dia un solo nome per lui.
"Certo che mi piace, sta seguendo la strada giusta. Un nome? Pirlo: tutto comincia e finisce con lui. Mi intriga Quagliarella e l’intero attacco dell’Udinese, con Di Natale".
Lei è tornato dall’ultimo infortunio 77 giorni dopo un intervento al legamento crociato del ginocchio: qualcosa che a tutti è sembrato inverosimile.
"Ricordo la fatica: fino a 10 ore al giorno di palestra. E il dolore che sopportavo. Attorno a me avevo tanti colleghi, molto più giovani, in riabilitazione dopo interventi analoghi. Ma un paio d’ore e una fitta bastavano per fermarli...".
Nessun giocatore d’alto livello ha avuto tanti incidenti gravi quanto lei. Nessuno a parte Ronaldo. Ce la farà?
"Mi sono rotto tutto nelle ginocchia, tranne i tendini: non me ne intendo del suo guaio. Il problema è nella sua testa, anche se invecchiando qualche chilo in più lo si guadagna sempre, purtroppo".
Quanto rimpiange di non aver continuato e di non sentire più l’adrenalina di certi momenti sul campo?
"Tanto, certo. La voglia di continuare c’era. Ma non ce la facevo più a lavorare come gli altri: troppi guai fisici. Era triste. Qualche volta, dopo l’allenamento, tornavo a casa da Brescia: un’ora di macchina, non di più. Quando scendevo dall’auto, la gamba mi rimaneva bloccata a 90 gradi, nella posizione della guida. E dovevo fare esercizi di allungamento per mettermi in piedi. Le emozioni? Sono fasi della vita: la realtà è questa. L’altra sera giocavo con il mio bambino più piccolo, Leonardo, che ha tre anni: gli facevo il solletico per farlo ridere. Ecco: anche l’emozione di veder crescere un figlio è impagabile".
Franco Arturi

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